Alienazione Genitoriale: quali conseguenze sullo sviluppo?

Nel corso degli anni, in particolare nell’ultima decade, si è assistito ad un incremento di percorsi separativi e di divorzio. Secondo quanto riportato nell’Annuario Statistico Italiano del 2017, le separazioni legali sono passate da 89.303 nel 2014 a 91.706 nel 2015 mentre i divorzi sono aumentati marcatamente da 52.355 a 82.469 (Istat, 2017). Di questi casi, poco più della metà delle separazioni e il 39,1% dei divorzi riguardano matrimoni con almeno un figlio minorenne (Istat, 2016). Durante queste particolari circostanze si presenta prepotentemente la possibilità che i coniugi, presi dalle loro problematiche, rileghino sullo sfondo le necessità e le sofferenze esperite dai propri figli. In questo ostico scenario, spesso, i livelli di conflittualità tra i due genitori, notevolmente alti, favoriscono l’instaurarsi di dinamiche familiari complesse e anomale in grado di influire sul tipo e sulla qualità della relazione genitori-figli: proprio dietro queste dinamiche si cela l’alienazione parentale (AP).

Il dibattito

Inizialmente, nei primi anni Ottanta, lo psichiatra statunitense, Richard Gardner, identificò, nel contesto delle controversie per la custodia dei figli, quella che lui riteneva essere una vera e propria sindrome che appunto definì Sindrome di Alienazione Parentale, abbreviata e nota anche come PAS. Gardner descrisse tale sindrome come un disturbo la cui manifestazione principale era da rintracciarsi nella campagna di denigrazione ingiustificata mossa contro uno dei due genitori, specificando: “Essa è il risultato della combinazione di una programmazione effettuata dal genitore indottrinante e del contributo dato dal bambino, in proprio, alla denigrazione del genitore bersaglio. In presenza di reali abusi o trascuratezza, l’ostilità può essere giustificata e, di conseguenza, la diagnosi di PAS come spiegazione dell’ostilità del bambino, non è applicabile” (Gardner, 1985, cit. in Verrocchio e Marchetti, 2017, p.41).

Sebbene Gardner detenga di certo il merito di aver messo in luce una condizione particolarmente grave e frequente, assolutamente degna di interesse sia clinico che giuridico, la sua concettualizzazione è stata oggetto di aspre critiche. Uno dei dibattiti che ha accompagnato la definizione di Gardner deriva, in particolare, dalla sua classificazione in termini di sindrome. Il termine sindrome infatti rimanda ad un insieme di sintomi indicativi di un disturbo e riconducibili ad un unico individuo mentre l’alienazione parentale rappresenta piuttosto un fenomeno psicologico complesso che coinvolge tutti i membri del nucleo familiare e, per questo, si configura più correttamente come una problematica relazionale. Sebbene la Corte di Cassazione, con la sentenza n.7041 del 2013, ha sancito la non scientificità della PAS (www.laleggepertutti.it, 2016), l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’ultima edizione dell’International Classification of Disease (ICD-11; OMS, 2018), utilizza “parental alienation”, ovvero alienazione parentale, utilizzandolo come sinonimo di una diagnosi specifica: la Caregiver-child relationship problem (QE52.0) (WHO, 2018; Bernet, 2018).

Facendo quindi riferimento alla letteratura più recente, è corretto parlare di alienazione parentale (AP) come di “una dinamica familiare nella quale un genitore (alienante o preferito) mette in atto comportamenti (strategie di alienazione) che possono favorire nel figlio un rifiuto ingiustificato e sentimenti di disaffezione nei confronti dell’altro genitore (alienato o bersaglio)” (Backer, 2014, cit. in Verrocchio e Marchetti, 2017, p.46). Questo non implica ovviamente che tutti i figli esposti a tali comportamenti cedano alla pressione di rifiutare un genitore, ma che, quando questo accade, essi esibiscano specifici segni rivelatori quali, da un lato la messa in atto di un atteggiamento protettivo nei confronti del genitore alienante, con il quale viene instaurato un legame simbiotico e invischiato e, dall’altro, un atteggiamento di rabbia indirizzato al genitore alienato che può tradursi nella difficoltà di transizione da un genitore all’altro e nell’attuazione di un comportamento rifiutante, ostile e provocatorio (Gardner, 1999a cit. in Verrocchio e Marchetti, 2017).

Il figlio interiorizza cognizioni, emozioni e rappresentazioni negative sia di sé che della figura genitoriale “demonizzata”.

Le relazioni disfunzionali

I meccanismi in essere nell’alienazione genitoriale, in grado di accendere dinamiche relazionali disfunzionali, possano trascendere le capacità cognitive ed emotive dei bambini coinvolti, i quali, a seconda della loro età e della differente fase evolutiva in cui tali meccanismi vengono messi in atto, non riescono ad utilizzare strategie di adattamento efficaci (Kelly e Johnston, 2001, cit. in Verrocchio e Marchetti, 2017). Quando ciò si verifica, il figlio interiorizza cognizioni, emozioni e rappresentazioni negative sia di sé che della figura genitoriale “demonizzata”. Queste errate rappresentazioni mentali, se perpetuate nel tempo, potranno favorire il radicarsi di un profondo senso di colpa, oltre che pregiudicare i processi di identificazione del bambino e la sua fiducia di base verso il mondo esterno (Camerini, 2016; Verrocchio e Marchetti, 2017). Alla luce di quanto descritto è possibile notare come in queste circostanze si riscontrino tutte le caratteristiche tipiche del maltrattamento psicologico, tra cui l’abuso e la trascuratezza emotiva (Luberti e Grappolini, 2017; Verrocchio e Marchetti, 2017). A supporto di questa dura affermazione, la letteratura e la pratica clinica più recenti hanno messo in luce come l’alienazione parentale possa essere considerata un trauma psicologico e relazionale capace di costituire un importante fattore di rischio per lo sviluppo di problematiche psicopatologiche e psichiatriche (Siracusano et al., 2015, 235). Nelle forme più severe, difatti, l’AP si traduce, in un certo senso, in alienazione da se stessi e ne deriva una grave confusione rispetto la percezione di sé e degli altri in cui il bambino non è più in grado di fidarsi delle proprie sensazioni e dei propri sentimenti, diventando dipendente dal genitore manipolatore. Questa distorta percezione della realtà può portare allo sviluppo di un’opinione completamente esagerata di sé o, al contrario, particolarmente negativa caratterizzata da scarsa autostima e un profondo senso di insicurezza. Crescendo il bambino incontrerà difficoltà nell’adeguato sviluppo della propria individualità e della propria indipendenza, predisponendolo all’insorgenza di un “falso sé” e, successivamente, a disturbi di personalità. Il bambino che è o è stato sottoposto ad AP rischia inoltre di sviluppare disturbi alimentari e dipendenze (Von Boch-Galhau, 2018). Quanto riportato trova conferma in molteplici ricerche. Tra queste, in particolar modo quelle condotte da Amy J.L. Baker sono in grado di offrirci una finestra attraverso la quale poter osservare il possibile sviluppo di questi bambini: in uno studio qualitativo retrospettivo (Baker, 2005) sono stati intervistati 38 individui di età compresa tra i 18 e i 67 anni che, da bambini, erano stati coinvolti nelle dinamiche riconducibili all’alienazione parentale. Nella maggior parte dei partecipanti sono stati riscontrati:

  • alti livelli di bassa autostima e sentimenti negativi verso se stessi;
  • significativi episodi di depressione (70% dei partecipanti);
  • in un terzo del campione seri problemi con l’uso di droghe e il consumo di alcool;
  • ricorrente sentimento di sfiducia in se stessi e negli altri;
  • la metà dei partecipanti che all’epoca dell’intervista erano genitori hanno riferito di essere genitori alienati, ripetendo così la loro personale esperienza di perdita e di rifiuto nonché il sentimento di non sentirsi amati, già esperiti durante l’infanzia;
  • alti tassi di divorzio (due terzi dei partecipanti avevano divorziato almeno una volta mentre un quarto almeno due volte);
  • alcuni partecipanti hanno inoltre riferito di aver scelto di non avere figli per non rischiare di essere rifiutati da loro, di avere problemi con la propria identità, un senso di non appartenenza e sentimenti di rabbia/amarezza per il tempo che hanno trascorso lontano dal genitore alienato.

A confermare questi risultati una più recente indagine condotta da Baker e Verrocchio (2013) su 257 studenti di Chieti ha rilevato alti tassi di depressione, bassa autostima, abuso di alcool e stili di attaccamento disturbati nel gruppo di coloro che erano stati soggetti all’alienazione genitoriale durante l’infanzia.

Ad oggi gli studi presenti in letteratura continuano ad evidenziare le conseguenze dell’AP lungo un continuum che si muove nel tempo e tra le generazioni. Risulta quindi doveroso ergere a priorità assoluta la tutela del minore e del suo diritto alla bigenitorialità, ossia il suo diritto a crescere relazionandosi in modo equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, mantenendo vivi i vincoli affettivi e godendo del supporto e della cura da parte di entrambi (Ceniccola e Sarracino, 2007).

Dott.ssa Carolina Caldieri

Dott. Jacopo Bruni

 

Bibliografia

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