Binge Drinking: quali interventi possibili

Sarà perché è comparso sulla terra più di ventimila anni fa e la sua storia accompagna la storia dell’uomo, l’alcol è diventato rapidamente partecipe e talora protagonista della nostra vita sociale, culturale e religiosa. Oggi la sostanza psicoattiva più usata dall’umanità (Rovetto, 2015).

Nel corso degli ultimi decenni, tuttavia, come ha più volte evidenziato l’Istituto Superiore di Sanità nel consueto rapporto annuale, è cambiato il modello. Fino a qualche tempo fa, infatti, si beveva per lo più in modo essenzialmente “tradizionale”: durante i pasti e preferibilmente nei giorni di festa (www.epicentro.iss.it). Oggi non ci sono più regole; si comincia a bere sempre più precocemente, a tutte le ore e, spesso, solo per noia o puro divertimento.

Si chiama Binge Drinking una delle abitudini preferite dai giovani, definibile come il bere ripetutamente in modo compulsivo fino ad arrivare alla completa ubriacatura. Una moda, questa, nata in America e che ha preso piede rapidamente anche in Europa. I ragazzi, così come le ragazze, ingeriscono dunque, volutamente, quantità ripetute di alcol in misura maggiore rispetto alle proprie capacità psicologiche e fisiologiche e al contesto nel quale si trovano. Il consumo è almeno di cinque o sei bicchieri in modo quasi consecutivo e rapido cioè: “Tutto di un fiato”.

In tal modo non vi è soltanto la pericolosità indotta dalla quantità eccessiva ma anche quella dovuta alla modalità di assunzione poiché l’alcol bevuto velocemente ha maggiori effetti negativi rispetto alla stessa quantità assunta a intervalli di tempo più dilatati. Lo stato di ubriachezza dipende, infatti, dalla concentrazione dell’alcol nel sangue, che dipende a sua volta dalla sua velocità di assorbimento: maggiore è la velocità, maggiore sarà la concentrazione massima di alcol nel sangue che si raggiunge, in media, dopo 30-60 minuti dalla cessazione dell’assunzione. Infine, più alta è la gradazione alcolica della bevanda, maggiore è la sua velocità di assorbimento. Diversamente, se la velocità di assorbimento diminuisce, il picco di concentrazione è ridotto dal fatto che, mentre l’alcol si diffonde nei tessuti, l’organismo ha già iniziato a metabolizzarlo ed eliminarlo. Bere grandi quantità di alcol, in forte concentrazione e molto velocemente, deprime fortemente il sistema nervoso provocando abbattimento o comportamenti aggressivi e alterazioni delle percezioni visive, uditive e motorie, fino ad arrivare a forme di perdita del controllo e della coscienza di sé. (Hudolin, 2015)

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha più volte sottolineato come l’alcol sia la prima causa di morte tra i giovani dai 15 ai 29 anni

Le bevande principali che aumentano il senso di euforia sono gli shot e i ritual

Lo shot, definito anche come bombardino o chupito (in spagnolo ubriacarsi, in inglese colpo) sono degli short drink che vengono serviti in piccole quantità ed in piccoli bicchieri di dimensioni variabili tra 3,5 e i 6 cl.

Allo stesso modo dilaga sempre più il consumo dei ready to drink o alcolpop; quest’ultimo deriva dall’unione dei sostantivi: ALCOL + POP che sta per indicare una visione moderna e giovanile delle bevande alcoliche.  Definite “girlie drinks”, sono bevande a base di alcol premiscelato in sostanze zuccherine e anidride carbonica che ne rendono l’aspetto e il gusto apparentemente innocuo tanto da considerarli come semplici succhi di frutta. Il trucco sta nel fatto che i nuovi drink hanno al massimo sette gradi alcolici e vengono serviti freddi di frigo in modo che, chi ne fa uso, non possa sentirne immediatamente gli effetti e facilmente ne ordini subito un altro.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha più volte sottolineato come l’alcol sia la prima causa di morte tra i giovani dai 15 ai 29 anni ma, nonostante tutto, esso si diffonde sempre di più e rimangono ancora sconosciuti e forse sottovalutati i suoi effetti negativi sulla società e sulla salute dell’uomo. Fa più vittime delle droghe illegali, eppure è ancora considerato alla stregua di un semplice vizio. Ha costi sociali enormi in termini di morti per patologie secondarie, incidenti stradali, ricoveri ospedalieri e persino licenziamenti, ma le bevande alcoliche sono oggi ancora più facilmente alla portata di tutti. (www.salute.gov.it)

Il citato rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità evidenzia come le ultime politiche adottate per fronteggiare il fenomeno sono ancora ferme ai tre best buys ossia, i tre migliori acquisti: l’aumento dei prezzi, la limitazione della disponibilità fisica ed economica delle bevande alcoliche sul mercato e il divieto di pubblicità degli alcolici. La quasi totale assenza di informazioni riguardanti la salute sulle etichette delle bevande alcoliche è considerato inoltre un market failure (fallimento del mercato). (www.epicentro.iss.it).

Alla base di un programma di promozione della salute vi è, infatti, la considerazione che le persone hanno il diritto di essere informate sui rischi legati al consumo di alcol, e che sia un compito dei Governi e della comunità colmare le lacune per contribuire a evitare inutili rischi che hanno poi un forte impatto sulla salute.

La crescente diffusione dell’abuso di alcool e di sostanze stupefacenti tra i giovani di tutti gli strati socioculturali, soprattutto in età preadolescenziale e adolescenziale, tuttavia, ci impone la necessità di nuove politiche di intervento e di prevenzione. La precoce acquisizione di comportamenti non corretti, che possono avere inizialmente anche carattere occasionale, ancorché si trasformino spesso in abitudini, aumenta la probabilità di mantenerli anche nelle età successive trasformandosi in una patologia sia fisica che psichica, ovvero in Alcolismo.

Il termine “Alcolista” fu coniato nel 1849 da Magnus Huss, professore di Medicina Interna dell’Università di Stoccolma, per meglio indicare le conseguenze morbose psichiche e fisiche derivanti dall’intossicazione cronica da alcol etilico (Marcet, 1868).

Molti anni dopo, nel 1960, l’americano E. M. Jellinek, suscitò molto interesse nel mondo scientifico internazionale, quando propose, nel suo libro “The Disease concept of Alcoholism” (Jellinek,1960), la teoria secondo la quale l’alcolismo poteva essere considerato più come una malattia cronica scatenata da diversi fattori predisponenti: costituzionali, psicologici e sociali.

Nel 1979, poi, un comitato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità propose l’uso di “sindrome da dipendenza da alcool” come categoria diagnostica in sostituzione del termine “alcolismo”.

Nel 1987, per un più razionale inquadramento del problema e nel tentativo di superare le difficoltà oggettive che si incontravano nel formulare una diagnosi precoce di uso inadeguato di alcolici, l’Associazione Psichiatrica Americana (A.P.A.) nella terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (D.S.M. III r) raccolse in un unico capitolo i disturbi da uso di sostanze. Nel DSM III R si individuavano due diverse condizioni connesse all’uso inadeguato di alcol: l’abuso e la dipendenza. Nel primo caso, all’uso di bevande alcoliche era associata una compromissione delle attività sociali e/o professionali del soggetto abusante, mentre potevano definirsi “dipendenti” coloro i quali presentavano sintomi di astinenza e di pensiero costante e perseverante nei confronti della sostanza.

Già pochi anni dopo, nel 1992, nella nuova edizione del manuale, si ridefinirono i termini di identificazione per porre una seria diagnosi sull’abuso e la dipendenza dall’alcol.

Nonostante gli sforzi, dunque, non sono stati ancora rintracciati i motivi che portano i ragazzi a bere: per dimostrare sicurezza davanti agli amici del gruppo, per sentirsi grandi, per vincere la timidezza e perché così fan tutti. Anche l’abitudine al consumo non moderato di bevande alcoliche da parte dei genitori sembra influenzare il comportamento dei figli.

Ai giorni nostri

Nel DSM-5 (American Psychiatrice Association, 2013), infine, le diverse forme di uso problematico di sostanze stupefacenti, sono state eliminate, e tutte le categorie riunite sotto la definizione disturbo da uso di sostanze: “Tale scelta deriva da considerazioni relative ai risultati di numerosi studi che mostrano come certi assunti sulle relazioni tra abuso e dipendenza non fossero in realtà corretti”. (Gabbard, 2015)

Nel frattempo, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), privilegiando l’aspetto socioculturale del problema, inquadrava l’alcolismo nell’ambito delle tossicomanie, lo stesso Gabbard introduceva una nuova definizione del termine secondo la quale esso doveva intendersi come “un punto di arrivo di una complessa interazione di carenze strutturali, predisposizione genetica, influenze familiari, contributi culturali e altre diverse variabili ambientali”. L’abuso di alcol, secondo lo studioso, non doveva essere considerato quindi di per sé, ma piuttosto come fenomeno variegato, complesso e multideterminato che si declina in una specifica persona. Sarebbe quindi più appropriato parlare di “alcolismi” (Gabbard, 2015).

Ancora oggi le difficoltà sorgono già solo nel definire una dose/soglia o un limite di consumo al di sopra del quale un bevitore è da considerarsi un bevitore “eccessivo”, un bevitore “problematico” o un “alcolista”. Questo anche perché si deve tenere conto di fattori individuali di tolleranza; gli effetti di una dose di alcol che sull’organismo variano da soggetto a soggetto; il livello di alcol nel sangue, in seguito alla sua ingestione, e il rischio di sviluppare dipendenza, variano col volume del corpo, il peso, le abitudini alimentari e in dipendenza del fatto che il consumo dell’alcol sia occasionale o regolare. (Hudolin, 2015)

Nonostante gli sforzi, dunque, non sono stati ancora rintracciati i motivi che portano i ragazzi a bere: per dimostrare sicurezza davanti agli amici del gruppo, per sentirsi grandi, per vincere la timidezza e perché così fan tutti. Anche l’abitudine al consumo non moderato di bevande alcoliche da parte dei genitori sembra influenzare il comportamento dei figli.

A tale riguardo, una ricerca di recente pubblicazione ha evidenziato anche una correlazione tra abuso di alcol e attaccamento insicuro oltre all’incidenza dello stile metacognitivo sulla propensione allo sviluppo del BD, suggerendo un intervento focalizzato sulla famiglia e sulla comunicazione negli adolescenti a rischio. (C. Lai, L. Pierro et altri 2019).

Gli adulti, perciò, non si sentano esclusi. D’altra parte, i dati presentati all’Alcohol Prevention Day (Apd) di quest’anno dall’Osservatorio Nazionale Alcol (Ona) parlano chiaro. Sono circa 35 milioni gli adulti che hanno consumato bevande alcoliche e tra questi circa 12 milioni l’ha fatto su base quotidiana; 5,5 milioni di persone eccedono le linee guida di consumo e 8,6 milioni lo fanno secondo modalità a rischio per la salute; il 14,8% degli uomini e il 5,9% delle donne hanno ecceduto abitualmente nel consumare bevande alcoliche per un totale di circa 5 milioni e 600 mila persone. Riguardo al binge drinking la prevalenza della popolazione adulta che ha dichiarato di aver consumato sei o più bicchieri di bevande alcoliche in un’unica occasione almeno una volta negli ultimi dodici mesi è pari a 11,5% tra gli uomini e 3,4% tra le donne. La percentuale di binge drinker di sesso maschile è statisticamente superiore al sesso femminile in ogni classe di età.

Al di là, comunque, di tutte le possibili definizioni e delle probabili cause, quel che ci interessa ora è continuare a porre l’attenzione su questo fenomeno di cui non si riesce ancora a comprendere la portata, e soprattutto gli effetti. Le difficoltà che si incontrano oggi nell’affrontare i problemi provocati dall’uso e dalla dipendenza dall’alcol derivano proprio dalla multidimensionalità del fenomeno e dalla integrazione della sostanza negli usi e costumi della nostra società. Dimentichiamo dunque lo stereotipo dell’alcolista che cammina barcollando e spesso vive per strada, la maggioranza ha famiglia, casa, lavoro e amici. L’alcolismo ormai è trasversale ai ceti sociali e alle categorie professionali, non si beve di più o di meno perché si è impiegati, artigiani o di buona famiglia. Alla fine, tutti finiscono comunque per manifestare inefficienza e inadeguatezza di fronte alle proprie responsabilità e ai propri compiti. Da qui la necessità ora di favorire una efficace e approfondita comunicazione per consentire a coloro che ricevono l’informazione, di avere gli strumenti per confrontare il proprio stile di vita con il rischio per la salute.

Dunque, programmi di intervento articolati rivolti all’incremento della informazione e della consapevolezza che tendano a un cambiamento non solo individuale ma anche collettivo.

Il coinvolgimento diretto dei ragazzi e della famiglia nell’analisi del problema e nell’individuazione delle soluzioni appare la strategia più idonea dal momento che sollecita, con la partecipazione alla presa di decisione, orientamenti proattivi e assunzione di responsabilità.

 

Patrizia Spagnoli

Bibliografia

American Psychiatric Association (1996), Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, III edizione (DSM II), edizione italiana, Masson, Milano.

American Psychiatric Association (1996), Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, IV edizione (DSM IV), edizione italiana, Masson, Milano.

American Psychiatric Association (2014), Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, V edizione (DSM-5), edizione italiana, Milano.

Barnao, C. (2011), Le relazioni alcoliche. Milano: Giovani e culture.

Gabbard, G.O. (2015), Psichiatria Psicodinamica. Milano: Raffaello Cortina.

Hudolin, V. (2015), Manuale di alcologia, Trento: Edizioni Centro Studi Erikson.

Jellinek, EM, (1960), The Disease Concept of Alcoholism, New Haven: Hillhouse Press,.

Marcet, W., (1868), On chronic alcoholic intoxication : with an inquiry into the influence of the abuse of alcohol as a predisposing cause of disease, New Yiork:  Moorhead, Simpson & Bond

Lai, C., Pierro, L., Begotaraj, E., Marani, A., Sambucini, D., & Pellicano, G.R. (2019), Stile metacognitivo, dimensione dell’attaccamento e rischio di abuso di alcool negli adolescenti italiani, Rassegna di Psicologia Volume 36 n. 2.

Rovetto, F. (2015), Psicologia clinica, psichiatria, psicofarmacologia. Milano: Franco Angeli.

Simone, M., Scodes J., Mason T, Loth K, Wall M..& Neumark-Sztainer D. (2019), Shared and non shared risk and protective factors of binge eating and binge drinking from adolescence to young adulthood, Jounal of Healt Psichology

Waterman, EA, Lee, KDM & Edwards, KM J, (2019), Journal of Youth and Adolescence

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